Una prospettiva incarnata ed ecologica del cervello: una recensione a Thomas Fuchs

Carmelo Pacino
Socio AIPF
pacinocarmelo@gmail.com

“Non siamo frutto dell’immaginazione del nostro cervello, ma persone in carne e ossa” (p. 348).

Questa brevissima citazione rappresenta il culmine di un percorso seguito nel libro “Ecologia del cervello. Fenomenologia e biologia della mente incarnata”, edito in Italia da Astrolabio Ubaldini, da Thomas Fuchs, filosofo e psichiatra, autore fra i più importanti dello scenario contemporaneo in riferimento alle prospettive incarnate ed enattive nelle neuroscienze e della psicopatologia fenomenologica, nel proporre una prospettiva ecologica del cervello e incarnata della soggettività, quest’ultima vista come ultima “roccaforte”, come l’autore stesso dirà, contro le reificazioni degli imperanti paradigmi riduzionisti della neurobiologia e delle neuroscienze cognitive. Nel testo, più o meno esplicitamente, emerge tramite un cammino rigoroso e attento al mondo-della-vita, tipico di un procedere fenomenologicamente orientato, la lontananza a cui i paradigmi neurocostruttivisti hanno portato gli studi neuroscientifici dal loro reale oggetto di studio, che non è un oggetto alla stessa stregua dei fenomeni naturali, ma è un soggetto-oggetto nella sua inscindibile ed imprescindibile integralità e dualità di Leib-Körper, ovvero corpo vissuto e corpo-oggetto organico.

Mettere in evidenza l’aggettivo “reale” in riferimento all’unità dell’essere umano ha lo scopo di marcare un paradosso che più volte Fuchs sottolinea: le neuroscienze si pongono l’obiettivo di studiare l’essere umano, ma la loro epistemologia dualista e il loro incedere con un metodo causale-lineare e riduzionista di fatto snatura ciò che nell’esperienza quotidiana viviamo, ovvero il nostro essere unità, integralità nel mondo. Noi siamo esseri che vivono nel mondo. E la vita è stata messa da parte, accantonata dalle neuroscienze, identificando l’essere umano con il suo cervello, visto come creatore della realtà che viviamo.

L’autore prendendo le mosse dai paradigmi incarnati (embodied) ed enattivi, propone una visione ecologica del cervello, visto come organo di mediazione, risonanza e trasformazione dell’intero essere vivente che è in relazione all’ambiente e al contesto culturale e sociale contro una visione rappresentazionalista che vede la realtà come una rappresentazione creata dal nostro cervello. Non è il cervello che sente, vede, agisce e pensa, ma l’essere umano vivente.

“In questo senso il cervello è da un lato connesso all’organismo vivente e dall’altro immerso nel suo ambiente naturale e sociale attraverso le molteplici interazioni, specialmente di tipo senso motorio, proprie dell’organismo. In altre parole, è sempre il corpo a rendere possibili queste interazioni (…) La relazione dinamica e in continuo mutamento tra cervello e ambiente è possibile solo in virtù del corpo e dell’organismo nel suo insieme” (p. 98).

Tutti aspetti che la tradizione fenomenologica, che qui trova una mirabile sintesi e applicazione teorico-metodologica, aveva evidenziato già in Husserl e Merleau-Ponty (più volte citati).

Pertanto, a partire da questo, l’autore si concentra su diversi temi che non procedono linearmente per compartimenti stagni, ma così come si vuole giungere ad una visione circolare dell’essere umano, essi si intrecciano in reciproci rimandi e integrazioni complementari: il millenario problema mente-cervello e il duplice aspetto corpo vissuto (soggettivo) e corpo oggettivo; il problema dell’interpretazione dei dati neuroscientifici (es: imaging); la questione della soggettività, tallone d’Achille delle neuroscienze; il cervello come organo dell’essere vivente; la causalità circolare tra cervello, persona e ambiente; lo sviluppo sociale e culturale del cervello; il concetto di proprietà emergente; la concezione ecologica in psichiatria e psicologia, e via dicendo, solo per citarne alcuni.

Proprio la grande varietà di temi, non permette ad una sola recensione di evidenziarli tutti, ma qui si metteranno in risalto quelli che sembrano fondamentali per orientarsi nel testo, ma non solo, in quanto uno degli scopi primari di questo commento è quello di diffondere il pensiero e le applicazioni della fenomenologia.

In questo caso specifico:

  • la critica ai paradigmi neurocostruttivisti, riduzionisti e dualistici;
  • il problema della soggettività;
  • la visione ecologica del cervello e la causalità circolare integrale
  • l’applicazione nei contesti clinici.

 

La critica ai paradigmi neurocostruttivisti, portatori di visioni cerebrocentriche, occupa tutta la prima parte della trattazione e costituisce una pars destruens propedeutica alla formulazione di una teoria ecologica del cervello.

L’epistemologia neurocostruttivista, “secondo cui la realtà fenomenica deve essere intesa come un rispecchiamento interiore o una ricostruzione del mondo esterno attraverso processi neuronali” (p. 23), trova la sua origine nell’ibrido tra due correnti: la corrente idealista che ha come precursori Cartesio, Locke, Hume, Kant, secondo cui non si percepisce la realtà in sé, ma sostituti, rappresentazioni, e la corrente materialista insita nel mondo neurobiologico. Ciò che permette il connubio tra queste due correnti è l’assoluta impotenza e marginalità della soggettività. “Nello spazio interiore della coscienza, il soggetto prigioniero solitario della sua stessa roccaforte, guarda le immagini dell’irraggiungibile mondo esterno. Ma queste immagini non sono più i costrutti delle facoltà kantiane della conoscenza, sono i processi cerebrali sottostanti. Ciò che corrisponde alle ideae[1] o immagini cartesiane son le ‘rappresentazioni neurali’, specifiche configurazioni di attivazione attraverso le quali il cervello rispecchia le strutture del mondo esterno” (pp. 28-29).

L’idea rappresentazionalista del mondo esterno viene criticata dall’autore su tre livelli, ma qui ci si concentrerà sul primo.

Tale critica si fonda sulla concezione incarnata ed enattiva della percezione e della cognizione, secondo cui la realtà non è qualcosa di fisso e predeterminato, “ma è continuamente prodotta nell’interazione sensomotoria di un essere vivente con il proprio ambiente” (p. 30), per cui la percezione implica la necessità di un corpo, di essere incarnati, ovvero di essere-nel-mondo e potersi muovere ed interagire in e con esso. “Nella percezione, un essere vivente non si trova in opposizione al mondo, ma è sempre già coinvolto e immerso in esso, com’è evidente dal significato stesso di ‘percezione’ (dal latino capĕre, ‘prendere’). Le capacità percettive del soggetto si sviluppano quindi nel corso della sua interazione con il mondo e implicano una continua circolarità fra percezione e movimento. Non saremmo in grado di riconoscere astrattamente quale sia il significato di termini come ‘lungo’, ‘profondo’, ‘morbido’, ‘pesante’, ‘caldo’, o di altre qualità; dobbiamo farne esperienza come esseri corporei” (p. 32).

A partire da questo si pone anche il problema della possibile virtualità del corpo vissuto stesso, ovvero che questo sia una costruzione del cervello, il quale produce il mondo interiore. In realtà, Fuchs dimostra tramite un’analisi più approfondita, che non è un’analisi statistica, matematica, ma un’analisi fenomenologicamente orientata, attenta quindi al fenomeno, come la scissione netta e assoluta tra corpo soggettivo o vissuto (Leib) e corpo oggettivo o organico (Körper) non regga. L’autore sottolinea subito il carattere coestensivo tra i due. Noi proviamo dolore esattamente nel punto in cui un ago ci ha punto. Il medico infatti, come evidenzia Fuchs, non ignora il vissuto del paziente e verifica l’esatto punto in cui quest’ultimo dichiara di sentire dolore e non esamina il cervello. “C’è quindi una corrispondenza spaziale o sintopia fra corpo vissuto e corpo fisico” (p. 33). Questo diventa evidente da un punto di vista intersoggettivo: dove il paziente sente dolore il medico trova la causa di tale dolore. Le tesi neurocostruttiviste qui trovano una forte contrapposizione: poiché il cervello crea il proprio spazio virtuale, allora non esiste un “fenospazio condiviso” (p. 34) e, pertanto, medico e paziente non potrebbero osservare la medesima cosa[2]. Inoltre, proprio l’aspetto dell’intersoggettività, tanto caro alla tradizione fenomenologica, viene più volte ripreso dall’autore: “l’altro mi appare principalmente come un’unità corporea animata (…) L’essere incarnati è invece il fondamento dell’intersoggettività, nella misura in cui non assegniamo stati interiori astratti agli altri nelle nostre interazioni corporee, ma facciamo esperienza delle loro espressioni facciali, dei loro gesti e del loro comportamento nel contesto della situazione come espressione diretta dei loro sentimenti, sensazioni e intenzioni. Quindi la percezione fondamentale degli altri non si basa su una ‘teoria della mente’ o su assunzioni o inferenze ipotetiche relative a un mondo interiore e invisibile al di là del corpo, ma si basa sull’intercorporeità” (pp.107-108).

Quindi, “il fatto che la coscienza corporea sia coestensiva all’organismo dimostra che essa non scaturisce da quest’ultimo come entità separata (…) ma che si tratta, fin dall’inizio, di una coscienza incarnata ed estesa. Essa rappresenta l’ ‘integrale’ dell’organismo vivente nel suo insieme, non un fenomeno rinchiuso nel cervello” (p. 35). Lo stesso Fuchs sintetizza: “dal punto di vista epistemologico questi aspetti sono complementari fra loro, cioè le rispettive descrizioni non sono intercambiabili e presentano solo determinate correlazioni e somiglianze strutturali. Tuttavia si tratta di espressioni dell’essere vivente in quanto unità ontologica, come mostra, tra l’altro, la coestensività fondamentale di corpo soggettivo e corpo fisico. Poiché l’organismo vivente e il suo processo vitale costituiscono il fondamento di ogni aspetto, il duplice aspetto non implica un nuovo ‘dualismo’ ontologico, ma un monismo mediato o, in termini hegeliani, un’unità dialettica di unità e diversità, dove gli aspetti sono caratteristiche oggettivamente distinte di uno stesso essere vivente” (p. 111).

Accanto alla critica a un mondo costruito dai circuiti neuronali, Fuchs tratta profusamente anche il tema della soggettività, altro grande filone di ricerca delle neuroscienze, ma che rappresenta anche l’ultimo baluardo che resiste ai riduzionismi neurocostruttivisti, i quali concepiscono la soggettività e il sé alla stessa stregua del mondo: una simulazione, un’illusione della struttura neuronale.

La critica di Fuchs ad una soggettività epifenomenica si articola in percorsi molto dettagliati. Fondamentalmente si sottolinea l’impossibilità di indagare in modo esaustivo la coscienza da una prospettiva in terza persona così come avviene per i fenomeni naturali, ma rimane necessaria una prospettiva in prima persona. In altri termini, non si tratta di angolature o punti di osservazione, “ma abbiamo a che fare con una sensazione di sé fisico-affettiva primaria, che rappresenta il nucleo di tutti i processi coscienti. Ancor prima di ogni prospettiva e cognizione, esiste una forma di presenza a sé immediata e preriflessiva, una familiarità affettivamente connotata della coscienza rispetto a se stessa” (p. 58). A coloro che hanno dimestichezza con il linguaggio fenomenologico quest’ultima citazione risulta chiara, ma in caso contrario risulta necessario rendere più fruibile questo linguaggio. In altre parole, Fuchs sottolinea l’impossibilità di rendere conto dell’esperienza soggettiva secondo una descrizione oggettivo-naturalistica senza che l’esperienza stessa non venga depauperata, in quanto ci si pone su piani differenti: nessuna spiegazione neurobiologica può spiegare la mia esperienza di dolore, di fame, di ansia, di gioia e qualsiasi altro vissuto. E’ come se si volesse pesare la farina con il metro. Inoltre, gli stati esperienziali possiedono la connotazione dell’intenzionalità: ovvero “hanno un contenuto intrinseco cui si riferiscono” (p. 61), aprendo così il grande tema del senso e del significato: “qualcosa significa qualcosa per qualcuno” (p. 62).

Il problema della reificazione della soggettività, del renderla una “cosa” tra le altre del mondo, e della sua identificazione con cervello operata dalle neuroscienze si manifesta anche nell’attribuzione di qualità e azioni al cervello che solitamente si attribuiscono agli esseri umani. A quanti è capitato di dire “oggi il cervello non ne vuole sapere di lavorare” o “il mio cervello non ti ha riconosciuto”? E’ il frutto di una “fallacia mereologica” (Bennett e Hacker, 2003 in Fuchs, p. 69), ovvero si attribuisce ad una parte del tutto (il cervello) attività che riguardano l’essere umano nella sua totalità. “Riflettere, sentire, volere e decidere: niente di tutto questo può essere ritrovato a livello fisiologico della descrizione perché a questo livello tali concetti non esistono affatto” (p. 71). La reificazione della coscienza porta anche all’errore della localizzazione, ovvero la pretesa di individuare con estrema precisione aree del cervello implicate negli stati esperienziali. Ecco spiegato l’enorme successo di tecniche di biomarcazione come l’imaging, il quale, però non mostra l’attività cerebrale in vivo ma i dati sono frutto di calcoli statistici e di parametri indiretti. Inoltre, tali dati non sono ecologicamente validi: gli esseri umani non vivono in laboratorio con elettrodi o altro, ma vivono nel mondo nella totalità dei rimandi e dei significati (Heidegger), senza nessun controllo di variabili, ma nel rapporto circolare con l’ambiente.

La critica di Fuchs qui abbozzata porta alla ribalta il primato del mondo-della-vita contro le posizioni fisicaliste del realismo metafisico delle neuroscienze cognitive, sottolineando l’impossibilità di un’osservazione che escluda una prospettiva partecipante.

Il primato dell’unità e dell’integralità pone altre questioni, tra cui quella delle proprietà emergenti di un sistema complesso, come lo sono gli esseri umani, e quindi anche il rapporto tra gli organismi e l’ambiente.

Essendo gli esseri umani caratterizzati da auto-organizzazione (o autopoiesi), questi assoggettano la materia al proprio funzionamento, includendola e trasformandola, e portando all’autonomia del sistema dall’ambiente, il quale agisce indirettamente sul sistema stesso. La capacità di adattarsi, quindi, “implica quella di conferire senso, che a livello più elementare indica la distinzione tra circostanze ambientali favorevoli e sfavorevoli, le quali sfociano in azioni adeguate di auto conservazione. Il conferimento di senso trasforma l’ambiente semplicemente fisico in un ambiente di significati e legami” (p. 118).

In ogni circostanza, pertanto, vi è una relazione mediata tra ambiente e organismo, tale per cui la soggettività è sempre incarnata e connessa all’ambiente, rifiutando ogni concezione che guardi all’interno e all’esterno come opposizione.

A questo è legato il problema della causalità. Nelle neuroscienze cognitive, impregnate dei paradigmi naturalistici, domina la causalità monolineare: a causa X corrisponde effetto Y. Tale forma di causalità, però, non considera la complessità, la dinamicità e l’interattività di questo sistema sovraordinato organismo-ambiente. Pertanto una prospettiva ecologica rende necessario un nuovo tipo di causalità che è quella circolare, “dove due sono le forme di relazioni reciproche o circolari che possono essere distinte come verticali e orizzontali: la prima riguarda il rapporto tra parti e tutto all’interno dell’organismo, la seconda riguarda il rapporto tra organismo e ambiente” (p. 127). Le causalità verticale e orizzontale non sono da intendere come processi distinti e separati, ma sono connesse in ciò che l’autore chiama causalità integrale, “attraverso la quale un organismo vivente, nel contesto di un ambiente complementare che contribuisce alla preservazione della propria vita, realizza determinati risultati: percepire, desiderare o afferrare qualcosa, camminare verso un obiettivo, parlare o scrivere e così via. Questi risultati rappresentano atti di vita che non riguardano solo i processi parziali dell’organismo (…), ma coinvolgono l’organismo nel suo insieme. Ciò significa che, nella sua realizzazione, l’essere vivente si manifesta nel suo duplice aspetto di corpo fisico e corpo vissuto, ossia come sentimento, percezione, desiderio e azione” (p. 133).

Questa prospettiva incarnata ed enattiva porta alla concezione secondo cui “la vita precede sempre la sua presa di coscienza. Si manifesta principalmente nel senso fondamentale del ‘corpo profondo’ non in quanto oggetto, ma in quanto fonte e origine dell’esperienza cosciente” (pp. 145-146). La soggettività è incarnata fin dall’inizio e la relazione              corpo-mondo è co-originaria: non si possono disgiungere e non è possibile individuare un primato dell’uno o dell’altro. Prima di passare all’inciso sulla parte clinica, risultano utili le parole dello stesso Fuchs: “il cervello non è un creatore del mondo: non c’è alcun ‘universo nella testa’, il cervello è principalmente un organo di mediazione, trasformazione e modulazione, integrato nelle relazioni interpersonali[3] e in quelle che l’organismo umano intrattiene con il mondo circostante. Il cervello si appropria di tali relazioni, agendo da supporto e da facilitatore, senza di per sé produrle (…) Il cervello facilita l’appropriazione delle abilità, disposizioni e modalità comportamentali che comprendono i tratti caratteriali essenziali di una persona. Quindi può essere definito l’ ‘organo delle potenzialità’. Tuttavia solo un essere vivente o una persona nel suo complesso può realizzare tali potenzialità (…) Solo le persone umane possono sentire, pensare, percepire e agire, non le popolazioni neuronali, né i cervelli” (p. 334).

Tutto questo ha profonde ripercussioni nei contesti psichiatrici e psicologico-clinici.

Il rischio che oggi corre la psichiatria è quello di trasformarsi in neuroscienze clinica, in quanto il dominio dei paradigmi dualistici e riduzionisti ha determinato un cerebrocentrismo che esclude la soggettività, vista come epifenomeno dei processi neurali, per cui i disturbi clinici sono affezioni o malattie del cervello (squilibri neurochimici ed elettrofisiologici), come sosteneva Griesinger, padre della psichiatria positivista, nell’Ottocento. Conseguentemente la cura non può che essere soprattutto chimica e farmacologica. Alla base di questo quindi vi è una specifica antropologia, per cui l’ánthropos è, nella sostanza, un agglomerato neuronale.

Fuchs esamina in modo molto attento i risultati delle ricerche neuroscientifiche in campo clinico-psichiatrico, giungendo ad un responso negativo: i grandi progressi neuroscientifici, ipso facto, non hanno prodotto rilevanti cambiamenti a livello psicodiagnostico e terapeutico.

Questo impasse dei paradigmi neuroriduzionisti evidenzia la necessità di prospettive comprensive ed ecologiche che tengano conto della circolarità che connota l’essere umano. In sintesi, Fuchs sostiene che i disturbi mentali siano caratterizzati da deficit della causalità circolare verticale, quindi delle interazioni tra processi di livello inferiore e quelli di livello superiore, andando a ledere la relazione che il paziente ha con se stesso; dall’altra parte il deficit riguarda anche la causalità circolare orizzontale, relativa all’adattamento e alle relazioni sociali. “Diversamente dai disturbi somatici e persino neurologici, l’esperienza della malattia non può quindi essere considerata un epifenomeno di processi fisiologici ‘reali’, perché la modifica dell’esperienza e della relazione del paziente con se stesso è la ‘sostanza’ del disturbo che, come tale, costituisce anche una componente continua e permanentemente efficace del suo decorso” (p. 309). Inoltre, “indipendentemente dalle loro cause, le malattie mentali sono sempre disturbi delle interazioni e delle relazioni del paziente a livello macroscopico, accompagnati da diverse riduzioni della libertà di rispondere in modo flessibile e autonomo a situazioni, possibilità e richieste del mondo sociale” (p. 312).

Alla luce di una prospettiva ecologica, anche il concetto di vulnerabilità, importante nella clinica, subisce delle modifiche basilari: la vulnerabilità “emerge in un complesso processo a feedback psicosociale e biologico, che a sua volta influenza la condotta di vita e le relazioni successive di un paziente. Anche i fattori culturali svolgono un ruolo fondamentale” (pp. 318-319).

Allora, la sofferenza psichica e l’esperienza di un paziente non possono che essere comprese all’interno di una prospettiva in prima e seconda persona. Tutto questo si traduce in una clinica che si fonda sull’incontro così come già nel ‘900, prima dello stesso Fuchs, i grandi maestri della tradizione italiana come Bruno Callieri hanno sostenuto. Un incontro tra due integralità e non tra parti scisse e avulse dal contesto. E in tale incontro si crea una situazione che trascende le singole parti. Non incontriamo amigdala, ippocampo o configurazioni neuronali, ma incontriamo persone nella loro globalità e la loro esperienza soggettiva.

“Da qui l’inaggirabile importanza, per la psichiatria e la psicoterapia, di una psicopatologia orientata al soggetto, basata su un orientamento fenomenologico ed ermeneutico, perché, quanto più oggettiva è la spiegazione che cerchiamo di dare al disturbo vissuto dal paziente, suddividendolo in dati misurabili o sintomi fisiologici, tanto più ci allontaniamo dalla prospettiva in cui la condizione è vissuta. In che modo il paziente prova ansia? Cosa si prova ad affrontare quel dolore? Che effetto fa sentire le voci? A queste domande si può rispondere solo dal punto di vista soggettivo dell’individuo in questione. La comprensione ermeneutica è tuttavia il metodo più vicino alla descrizione di questa particolare prospettiva, che consiste nel risvegliare in se stessi una modalità esperienziale simile attraverso un’attenta percezione, l’empatia, la traduzione e l’immaginazione. Si tratta, certo, di una forma di riconoscimento diversa da quella convenzionalmente usata dalla scienza oggettiva: è un riconoscimento che non avviene attraverso l’analisi, ma tramite il coinvolgimento in una relazione condivisa (…) Nessuna scansione del cervello, indipendentemente dalla precisione dei dettagli che rivela, potrà mai essere superiore a questo strumento (…) Gli schemi maladattivi di percezione e reazione, che stanno alla base dei disturbi psichiatrici, possono essere modificati solo da nuove esperienze soggettive e intersoggettive. La dimensione esistenziale del riconoscimento di sé, delle relazioni e dei significati, fondamentale per ogni tipo di terapia approfondita, è al di fuori della portata dei metodi neuroscientifici. Pertanto la psicoterapia non diventerà mai un ramo della neurobiologia applicata, perché le sue scienze fondamentali restano la psicologia, l’ermeneutica e le scienze sociali e umane in generale” (pp. 332-333).

 

Questo percorso, breve se paragonato alla vastità dei temi trattati dall’autore, si conclude con questa presa di posizione netta da parte di Fuchs. In un mondo dominato dalla quantità e dalla misurazione, una psicologia fenomenologicamente orientata non può che proclamare il primato dell’esperienza e del mondo-della-vita, ribadendo come la psicologia sia veramente il “campo delle decisioni” di cui parlava Husserl ne La crisi delle scienze europee in riferimento all’epistemologia scientifica.

Fuchs per tutto il testo mantiene un procedere rigoroso, sempre aderente al mondo-della-vita e all’esperienza, proponendo esempi tratti proprio dalla quotidianità, come ogni testo di stampo fenomenologico vuole, e analizzando criticamente i risultati scientifici degli ultimi due decenni.

Nel proporre una teoria ecologica del cervello e una prospettiva incarnata ed enattiva della soggettività, il testo si presenta come un ottimo compendio teorico-applicativo della ricerca fenomenologica nelle neuroscienze e nella clinica.

 

Carmelo Pacino.

[1] Tutti i corsivi nelle citazioni dirette sono dell’autore.

[2] Qui evidente mi pare lo “stridio” epistemologico: le conseguenze delle prospettive neurocostruttiviste tradiscono le basi e le fondamenta della prospettiva stessa.

[3] Interessante lo sviluppo sociale e culturale del cervello, cui si rimanda al testo.

 

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