A proposito del primo passo

A proposito del primo passo

                                                            Francesca Sbraccia

Ogni incontro interumano si può ricondurre e
topograficamente rappresentare, come un
viaggio verso l’altro che, in primo luogo, è
viaggio verso la propria egoicità trasferita,
ma che poi si rivela, per ciascuno di noi,
come mezzo formidabile di definizione
proprio attraverso il confronto con l’“alterità”
dell’altro che nella misura in cui si rivela
come non coincidente con la nostra
proiezione contribuisce a delimitare noi stessi
(Bleger J. Simbiosi e ambiguità)

 

Pensando ai primi passi, mi è tornata in mente la prima volta che incontrai Ferdinando Barison. In quel periodo, alla fine degli anni ottanta,  stavo lavorando con un gruppo di colleghi del Centro di Salute Mentale ad un progetto di costituzione di una Comunità Terapeutica. Decidemmo di incontrarci tutte le settimane per confrontarci su cosa intendevamo per Comunità Terapeutica, quale il senso della cura, che tipo di operatori, quali pazienti potevano beneficiare di un trattamento residenziale, che organizzazione doveva avere la struttura. Questo progetto si concretizzò faticosamente dopo quattro anni nel dicembre del 1992, pressando un’Amministrazione che  faticava a rispondere alle nostre richieste e confrontandoci animatamente con alcuni colleghi del Servizio che mal tolleravano un cambiamento così radicale nell’équipe. Il nostro intento era da un lato “pensare” su quali elementi dovevamo lavorare per costituire una Comunità che fosse veramente terapeutica e dall’altro organizzare delle esperienze anche in residenzialità, fuori dal contesto istituzionale, per individuare le tipologie di pazienti suscettibili di un trattamento residenziale.

Una delle cose interessanti che emerse dai nostri incontri, fu quando decidemmo di verificare la fattibilità del progetto e ci accorgemmo che pur spinti da un grande entusiasmo o forse proprio per questo, nel compito che ci eravamo assegnati di immaginare una nostra giornata in Comunità, il tempo reale non bastava a contenere tutte le idee e le proposte di cura e di intervento.

Capimmo che dovevamo lavorare a “togliere”, più che a riempire, con l’idea che ciò che doveva caratterizzare il nostro intervento, era pensare a come  “stare con i pazienti” in una sospensione di significati, come se incontrassimo dei nuovi mondi da esplorare e che un eventuale “fare”, poteva inserirsi di volta in volta nel reciproco rispetto delle caratteristiche della soggettività di ognuno, ma anche il “fare”, l’agire doveva avere un pensiero, un senso nel percorso di cura di quel singolo paziente.

Individuammo come area di interesse gli schizofrenici.

In quegli anni mi capitò di essere presente ad una delle lezioni che Ferdinando Barison teneva agli specializzandi della Clinica Neurologica di Padova e che amava chiamare “conversazioni” o “divagazioni” per sottolineare l’apparente impronta informale che le caratterizzavano.

Ricordo che, affascinata dall’entusiasmo di questo vecchio professore per la psicopatologia e per gli schizofrenici in particolare, sentivo che “dava voce” alla mia esperienza clinica in particolare con i pazienti psicotici. Mi colpì l’appassionata dissertazione sulla questione della comprensione dello schizofrenico tra Erklaren e Verstehen di jaspersiana memoria. Mi appuntai su un pezzetto di carta un paio di frasi di Barison che mi colpirono: “…ciò che mi interessa nell’incontro con il malato è l’Essere, il cercare di cogliere nell’uniformità della patologia, l’unicità dell’essere al mondo di quel malato…” e citando Gadamer: “quando avviene l’incontro con l’Altro da questi due mondi ne nasce un terzo che trasforma entrambi”

Il dialogo ermeneutico, diceva Barison, realizza una modificazione dei due universi, quello del paziente e quello dell’operatore in un nuovo universo….c’è una modificazione dei due in quanto “coesistenti” in un nuovo “esserci”.  Parlava di fenomenologia, di ermeneutica, di incontro, di mondi, di unicità, di trasformazione, di significati, tutti elementi che ritrovavo nella mia esperienza clinica quotidiana.

Da quel giorno iniziò una collaborazione con Barison che ebbi il piacere e l’onore di avere come Maestro fino alla sua morte nel 1995.

La Comunità Terapeutica venne aperta con queste premesse e iniziò il suo cammino grazie al lavoro di tutta l’équipe che continuò la sua formazione sulle psicosi per tutti gli anni che mi trovai a dirigerla; una formazione ermeneutica che attingeva alla fenomenologia e alla psicoanalisi senza dimenticare un’attenta analisi delle dinamiche istituzionali.

Una formazione nel senso di un “dar forma” ad un’esperienza vissuta ma anche la ricerca di un metodo, metà-odòs, una strada da percorrere, e la supervisione, strumento indispensabile per lavorare nelle strutture residenziali, fu una condizione per aprire la Comunità. Ludovico Patarnello, Maestro e amico da poco scomparso, fu la nostra guida in questo cammino pieno di ostacoli e di grande crescita per tutti; ci interrogavamo sulla rotta da tenere, se riuscivamo a mantenerla o ci facevamo trascinare da correnti contrarie o peggio ancora se convinti di andare in una certa direzione, non ci accorgevamo di scarrocciare verso un insidioso adattamento istituzionale. Patarnello è stato la nostra bussola per alcuni anni e, con il suo modo di essere al mondo, ci stimolava a sempre nuove riflessioni sul trattamento istituzionale della schizofrenia e delle psicosi in genere, sui possibili significati coglibili nello “stare con” ma anche a interrogarci sul significato curante della stessa Comunità Terapeutica. Mi piace ricordare una delle metafore che ci suggeriva Patarnello e che tuttora, con gli infermieri, amiamo rievocare: “In questo periodo in Comunità si sente più l’odore di alcol o di caffè?” quanto cioè la Comunità rispondeva più ad una modalità “ospedaliera”, medicalizzata o più ad una dimensione “famigliare”, da che parte pendeva il piatto di questa bilancia?

D. giovane schizofrenica con un pensiero altamente disorganizzato, è la prima paziente ad entrare in Comunità.

D. si mostra angosciata, inquieta, smarrita; passa la giornata con gli operatori alla ricerca di identità perdute, assegna a se stessa e agli altri paternità e maternità diverse, legami parentali che fluttuano dall’assegnazione di identità religiose, a quelle dei medici della clinica dove era stata ricoverata per otto anni; ci pone una domanda chiara e perentoria: “chi sei?…dimmi chi sei!”

L’accompagno nella sua camera insieme ad un’infermiera, D. apre l’armadio e dice sottovoce a se stessa ma anche a chi è presente: “finalmente ho costruito anch’io una casa”. In quel momento restiamo in silenzio assieme a lei, intuiamo che per D. la Comunità sia “casa” nel senso della struttura fisica ma anche qualcosa di possibile nell’incontro con noi, è un primo passo….. per lei e per noi.

“Possiamo comprendere lo schizofrenico in quanto ci viene incontro come essere significativo”, diceva Barison, “ma diviene linguaggio solo in un comprendere tale linguaggio, al di là del dialogo delle parole, nell’interpretazione anche se muta dell’interprete”.

Scoprire dei significati possibili alla ricerca dell’originalità dell’esistenza schizofrenica, assume allora le caratteristiche di un percorso, “un continuo divenire dovuto all’interazione del tutto sulle parti e delle parti sul tutto”, come ci ricorda Gadamer in Verità e metodo, dove l’ascolto attento, un atteggiamento di apertura silenziosa verso l’Altro, un essere-con, è un primo passo di una psicoterapia.

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