Un approccio fenomenologico alla psicologia dello sport

Giuseppe Salerno

Socio Associazione Italiana Psicologia Fenomenologica

 

Introduzione

Alla sua nascita, risalente ormai a più di vent’anni fa, la psicologia dello sport si è organizzata attorno agli assunti del cognitivismo tradizionale, fondando il proprio sguardo sulla metafora della mente come elaboratore di informazioni. Negli ultimi anni, tuttavia, un lento ma inesorabile spostamento di prospettiva si sta realizzando nella direzione della fenomenologia e della Embodied Cognition. Da una teoria disincarnata dell’uomo (mente-cervello) gli psicologi dello sport stanno passando ad una antropologia radicalmente embodied (corpo-mondo). Proveremo di seguito a toccare alcuni dei concetti chiave, di chiara derivazione fenomenologica, di questa nuova versione della psicologia dello sport, come quelli di schema corporeo, intelligenza incarnata, memoria corporea, intenzionalità operativa, per poi definire somiglianze e differenze tra sport individuali e sport di squadra in tale prospettiva. Nel far questo proveremo a mantenere un certo ancoraggio alla pratica e alle possibilità di intervento dello psicologo in questo contesto così complesso ed affascinante.

Il 1991, anno della pubblicazione del testo “The Embodied Mind”, di Varela, Thompson e Rorsch, può essere a buon diritto considerato l’anno di nascita del paradigma della Embodied Cognition. Dato che hanno a che fare, in campo, in panchina e in palestra, con atleti ed allenatori direttamente impegnati nel lavoro corpo-a-corpo, si potrebbe pensare che gli psicologi dello sport avrebbero dovuto essere tra i primi a far proprio un approccio che concepisce l’uomo come un agente originariamente corporeo. Eppure, è da relativamente poco che la psicologia dello sport si è aperta a queste direzioni di ricerca. I motivi di questa reazione ritardata possono essere rintracciati forse nella difficoltà ad abbandonare una visione che aveva fornito perlomeno, nel corso del tempo, una parvenza di dignità scientifica agli occhi degli sportivi e del grande pubblico. Il linguaggio scientista e tecnicistico del cognitivismo iniziale, così come una poco chiara vicinanza alle neuroscienze, convinceva atleti, presidenti ed allenatori. Dunque, perché abbandonarlo? E in favore di cosa poi?

Nonostante ciò, comunque, il vento della svolta corporea in psicologia ha iniziato a soffiare anche sulla psicologia dello sport, spingendola verso un cambiamento paradigmatico ormai irreversibile. Ne è stata prova la pubblicazione nel 2019 del libro “Handbook of Embodied Cognition and Sport Psychology” a cura di Massimiliano Cappuccio, che ha messo insieme per la prima volta i contributi di scienziati cognitivi e di fenomenologi del calibro di Shaun Gallagher, attorno a temi cari alla psicologia dello sport, come quelli di movimento, prestazione, attenzione, flow.

Prima di poter riflettere compiutamente su questi ultimi con gli strumenti concettuali della Embodied Cognition e della fenomenologia proviamo a porci una domanda preliminare. In che modo il mio corpo ha a che fare con me? Se è vero, come è stato affermato da alcuni (Merleau-Ponty, 1945), che il corpo è il veicolo fondamentale attraverso cui l’esistenza dispiega le proprie possibilità, in che modo esso svolge il proprio ruolo nel mondo della vita e quindi anche in quello dello sport?

Corpo ed apprendimento

Una risposta provvisoria ad una domanda del genere ha a che fare con l’apprendimento. A ben vedere, il corpo è il luogo ove si realizza ogni tipo apprendimento. L’identità personale, nel proprio nucleo originario ed irriducibile, è fatta di carne e di corpo. Su questo ormai c’è ampia convergenza di evidenze e riflessioni (Sass and Parnas, 2003; Zahavi, 2005; Stanghellini, 2018). Ogni essere umano (forse potremmo dire ogni essere vivente?) fa esperienza in un modo unico ed irripetibile della relazione tra il proprio corpo e l’ambiente che lo circonda (il medium nella terminologia di von Uexküll). In questa direzione, non solo i fenomenologi ma anche molti psicoterapeuti ad orientamento corporeo hanno costruito il proprio pensiero e la propria pratica. Basti pensare tra i molti a Kretschmer (1925) e a Straus (1956) nel primo ambito, a Reich (1949) e a Lowen (1958) nel secondo. Nonostante l’enorme divario epistemologico che attraversa come una faglia questi due ambiti, un punto in comune tra loro esiste: ogni forma d’esistenza (Daseingestalt), che si voglia chiamarla modo di essere, struttura caratteriale o stile di personalità non fa molta differenza, affonda le proprie radici nel corpo vivo e nello scambio continuo che quest’ultimo intrattiene con il mondo. In questo senso, facendo propria una visione ecologica della mente (Gibson, 1979), la psicologia fenomenologica dello sport, di cui qui vorremmo tentare di parlare, non è solo Embodied ma anche Extended. L’attenzione dello psicologo, quindi, non è solo rivolta al corpo e alla soggettività ma anche al mondo-ambiente nel quale ogni corpo vivente è sempre immerso in un reciproco ed indissolubile rapporto di co-determinazione (Varela, 1984). Iniziano così a svanire tutti i fantasmi dualistici cartesiani che per secoli hanno allungato le loro ombre sulla psicologia, compresa quella dello sport.

In questa nuova prospettiva è il Sé corporeo a costituire la base dell’identità personale. “Sento dunque sono” (Bizzari, 2018) o ancora “mi muovo dunque sono”, questi sono i nuovi punti di partenza di una psicologia di tal genere, in grado di metter per sempre da parte Cartesio e il suo meccanicismo corporeo. È infatti attraverso l’ordine del sentire e della sensorialità (Correale, 2021; De Monticelli, 2012), definito da Max Scheler ordo carnis, come attraverso quello del movimento vissuto (Straus, 1935) che ogni individuo apprende, in uno scambio dialettico e corporeo con il proprio mondo, dalle proprie esperienze. Io sono questo corpo che ha imparato dalla propria storia a tenere un certo stile relazionale verso il mondo, verso gli altri e verso sé stesso. Io sono questo corpo in grado di mantenere stabile questo specifico equilibrio nello scambio tra sé e il mondo. Questa stabilità nella mia esperienza di contatto con il mondo è possibile solo grazie agli schemi corporei che ho fatto miei. È attraverso l’apprendimento che ogni corpo impara come è possibile stare al mondo nel proprio ambiente, costruendo per sé una certa coerenza in grado di dare sufficiente sicurezza, corporea e psicologica. Seguendo Fuchs (2018, 2020), possiamo dire che ogni memoria è una memoria incarnata. Nel corso dello sviluppo prima di ogni forma di ragionamento linguistico e razionale, forse anche prima di ogni nucleo emotivo stabile, esiste un’intelligenza incarnata, che forse più che una tappa evolutiva è un dispositivo relazionale (tra corpo e ambiente) con il quale veniamo al mondo e che nel corso del tempo si complessifica crescendo con noi. Se qualcosa mi attrae mi muovo nella sua direzione, e se viceversa provo repulsione per qualcos’altro devo allontanarmene. Il nostro corpo nasce con disposizioni di questo tipo e le sviluppa verso la costruzione di uno schema corporeo che ha lo scopo di mantenere stabile la mia identità e coerente il mio comportamento nei confronti dell’ambiente. Questa forma di intelligenza originaria ha in qualche modo a che fare con ciò che un filosofo francese chiama senso pratico (Bourdieu, 1980) e che costituisce un livello implicito ma indispensabile del nostro essere al mondo. È grazie a questa intelligenza incarnata che il bambino prima, l’adolescente poi e l’adulto infine costruiscono le competenze motorie e relazionali necessarie ad operare nel proprio contesto. È grazie a questa intelligenza incarnata, infine, che gli sportivi costruiscono abilità sempre più raffinate, in grado di competere a livelli sempre maggiori. L’apprendimento è quindi sempre mediato dall’embodiment, in particolare nelle fasi precoci dello sviluppo. In origine il bambino è un flusso di sensazioni corporee poco differenziate, che grazie all’intelligenza corporea si autorganizza in una forma in grado di interagire a livelli sempre più complessi con il mondo e con gli altri.

Embodiment, schema corporeo ed immagine corporea

Prima di procedere oltre proviamo quindi a definire cosa sia l’embodiment. È un termine ormai molto diffuso in psicologia come nelle neuroscienze che sta per quel processo attraverso cui ogni persona si identifica con il proprio corpo (Salerno, della Gatta, 2018, p. 9). Per approfondire questo concetto centrale per la psicologia dello sport, mi sembra utile partire dalle due strutture che fondano l’embodiment: lo schema corporeo e l’immagine corporea. Il primo è un sistema di processi sensomotori che organizzano la postura e il movimento (Gallagher, 2005). È un flusso d’esperienza preriflessivo che prende forma attraverso l’interazione circolare e continua tra un corpo vivo ed il suo mondo. Di solito questo flusso si costituisce come uno sfondo informe non facilmente accessibile alla coscienza, anche se attraverso alcune pratiche, come quelle meditative, e in alcuni momenti, come nell’esperienza della malattia o della sofferenza, esso si fa presente alla coscienza in alcuni suoi aspetti. Lo schema corporeo è sempre mediato dalla propriocezione (percezioni provenienti dal proprio corpo) e dall’interocezione (percezione…). Questa modalità del percepire ha a che fare con le sensazioni viscerali, con la postura, con il movimento, con il respiro, tutti aspetti costantemente influenzati dalla nostra relazione dinamica con il mondo. Se sono in una situazione serena e rilassata il mio corpo reagirà in maniera molto diversa rispetto a quando sento minacciata la mia integrità, corporea e psicologica (ancora una volta chiediamoci quanto ci sia davvero di diverso). Lo schema corporeo è un concetto che prova a rendere pensabile quello che in fenomenologia è definito Leib, il corpo-soggetto (Stanghellini, 2020). Si tratta di una forma dialogo (sì perché anche a questo livello noi siamo sempre un dialogo) diretta ed immediata con il mio corpo, che si esprime senza mediazioni linguistiche ma con le parole della carne. Infine, possiamo dire che lo schema corporeo è un sistema autorganizzato di abitudini che l’organismo ha scoperto essere funzionali al perseguimento dei propri scopi vitali (su questo importante è la lezione di Scheler). Questi schemi di interazione, che potremmo chiamare habiti (Boudieu, 1980), o nel tedesco di Fuchs Gewohneit (Fuchs, 2012), si strutturano nel corpo diventando, per esempio, un certo modo di respirare, caratterizzato da una certa ampiezza e da una certa profondità, un certo modo di star seduti o di intonare la propria voce. Queste forme caratteristiche della carne si affermano nel corso dell’esistenza di ognuno a discapito delle altre possibilità, andando a costituire il cuore dell’identità personale.

L’immagine corporea è invece un sistema di percezioni, emozioni, fantasie e credenze rispetto al proprio corpo (Gallagher, 2005a, 2005b). Posso per esempio vedermi più magro o più grasso, posso piacermi o non piacermi. Tutto ciò è mediato dall’immagine corporea che ho di me stesso. Si tratta di esperienze accessibili alla coscienza, principalmente mediate dal senso della vista: io mi vedo più grasso del solito. Spesso i disturbi del comportamento alimentare affondano le radici in questo livello dell’embodiment, sebbene portino con sé delle alterazioni anche al livello dello schema corporeo, come l’anestesia (Stanghellini, 2019a, 2019b). L’immagine corporea traduce nei termini delle scienze cognitive e della Embodied Cognition ciò che in fenomenologia per primo Husserl ha definito Körper, il corpo-oggetto, cioè la rappresentazione che io ho del mio corpo.

Entrambi gli aspetti dell’embodiment, quello implicito dello schema corporeo e quello esplicito dell’immagine corporea, sono necessari allo psicologo dello sport che si approcci al proprio lavoro con gli atleti.

Il terreno comune

Partendo da questa visione incarnata dell’essere umano proviamo ora a chiederci cosa sia lo sport. Si tratta di una breve proposta, chiaramente imprecisa e provvisoria, che prova a chiamare all’esistenza la possibilità di una psicologia fenomenologica dello sport. Quale è il terreno comune di tutti gli sport? Partendo da ciò che abbiamo visto finora, possiamo dire che nella cultura occidentale lo sport è quella pratica del corpo deputata allo sviluppo dell’embodiment e dell’intelligenza incarnata all’interno di una situazione competitiva (in questo senso risultano essere atipiche discipline come gli scacchi). In campo educativo e pedagogico, è attraverso la pratica sportiva che i bambini fanno esperienza del proprio corpo in relazione agli altri in un contesto caratterizzato da una struttura di regole precisa. Ogni sport spinge allo sviluppo di competenze pratiche, motorie e relazionali indispensabili, altrove nella nostra cultura poco o per nulla considerate. Basti pensare all’ambito scolastico, che per come è tipicamente organizzato, ad oggi, presuppone una completa dimenticanza del corpo. Costretti a restar seduti per ore, più che mai distanti l’uno dall’altro a causa del Covid, i figli del nostro tempo diventano sempre più iperattivi e caotici. E giù di Ritalin per calmarli (in molti casi non si potrebbe provare prima con una pratica sportiva ben organizzata, ma questa è un’altra storia). Insomma, nell’era del Covid e della digitalizzazione, in cui tutto si smaterializza per farsi bit, lo sport è quella pratica che restituisce carne all’esistenza umana. Mentre vige una generale tendenza a disincarnare le esperienze e le relazioni, a vivere attraverso lo schermo di uno smartphone tutto ciò che prima era corporeo ed im-mediato, ancora oggi lo sport spinge al contatto corpo a corpo, ultimo baluardo dell’incontro de vivo (difficile farlo a distanza se nel corpo sta la sua vera essenza).

La pratica sportiva aiuta i bambini in fase di sviluppo a mettere in forma il proprio corpo-soggetto (e quindi la propria esistenza) attraverso l’apprendimento di schemi motori complessi e di regole per l’interazione con l’altro. Come dicevamo sopra, il bambino vive una dimensione prevalentemente informe della corporeità che si struttura nel corso del tempo attraverso la relazione con il proprio ambiente e con gli altri. È in questo modo che lo sport contribuisce alla costituzione di quella struttura nucleare dell’identità personale che è il Sé corporeo. In conclusione, quindi, l’utilità pedagogica dello sport sta principalmente nello spingere i bambini, gli adolescenti e i giovani adulti a costruire una propria identità personale, incarnandola attraverso interazioni costanti e regolate. Attraverso la pratica del corpo, per esempio, lo sport è ciò che aiuta a percepire i propri limiti e le proprie possibilità, a sperimentarsi come un io posso originariamente corporeo, a sviluppare autostima e senso di sicurezza.

Gli sport individuali

Sulla base del nostro sguardo incarnato alla psicologia dello sport fin qui portato avanti, proviamo ora a chiederci quale sia lo specifico degli sport individuali e quale sia il ruolo dello psicologo dello sport in questo ambito. Un intero team (atleta e allenatore nel caso più semplice) lavora per un unico scopo: costruire una prestazione in allenamento e portarla in gara. È tutto un lavoro da fare su stessi e sul proprio corpo, sostenuto dalla possibilità di mantenere la propria attenzione al servizio della prestazione. Per un atleta l’essenza di uno sport individuale sembra quindi risiedere nello sviluppo della capacità di concentrazione (Gardner, Moore, 2012). Attraverso la costruzione e il mantenimento di un certo equilibrio emotivo corporeo l’atleta tenta di portare in gara la performance costruita in allenamento (Bicknell, 2021; Gregucci et al., 2015). Sta nel sostenere l’atleta a trovare e mantenere questo equilibrio lo scopo del lavoro dello psicologo dello sport. Come sa bene chiunque abbia provato a praticare uno sport individuale, sono molti i “distrattori”, emotivi, relazionali, personali, che possono intervenire. Lo psicologo qui ha il ruolo di lavorare su questi allo scopo di costruire un equilibrio stabile anche se dinamico. È vero che un intervento psicologico di questo tipo può essere svolto anche negli sport di squadra ma mi sembra che qui questo sia proprio il cuore del lavoro. L’individuo come totalità deve diventare in grado di mantenere l’attenzione e il proprio equilibrio emotivo corporeo ad un livello tale da consentire la migliore performance. Proviamo ad immaginare un esempio. Il lavoro comincia in allenamento, dove l’atleta sviluppa una certa abilità motoria complessa, come può essere lo smash nel tennis. Poi il soggetto incontrerà vari periodi di stress, sia nel periodo pre-gara che in gara, e dovrà riuscire a mantenere una certa stabilità nel suo movimento di smash per poterlo utilizzare in partita in maniera efficace contro l’avversario. Un buon risultato si potrà ottenere solamente se l’atleta sarà in grado di raggiungere e mantenere un sufficiente equilibrio emotivo-corporeo.

Gli sport di squadra

Mantenendoci sempre dentro quell’area di sovrapposizione tra la fenomenologia e la Embodied Cognition proviamo a vedere quale sia lo specifico degli sport di squadra e in che modo possa lavorare in questo ambito lo psicologo dello sport. L’essenza degli sport di squadra sta nel passaggio alla dimensione dell’intercorporeità attraverso la cooperazione per il raggiungimento di uno scopo. Una squadra non è un‘entità in grado di muoversi come un corpo unico. Le relazioni tra i membri di una squadra si fondano su quella che Merleau-Ponty definisce intenzionalità operativa. Si tratta della possibilità che hanno più corpi vivi di interagire muovendosi in maniera sincronizzata. Sono abilità evoluzionisticamente sviluppatesi attraverso azioni che richiedono cooperazione per il raggiungimento di uno stesso scopo, come per esempio la caccia. Attraverso l’intenzionalità operativa gli atleti riescono a coordinarsi e ad agire come un unico sistema. Ma come è possibile che due corpi si comprendano al punto tale che uno conosce già, implicitamente, senza ricevere comunicazioni esplicite ne pensarci esplicitamente, cosa sta per fare un altro corpo da lui distinto? Ciò è possibile grazie al fenomeno della Mutual Incorporation (Fuchs, De Jaegher, 2009). Da tempo molti studi hanno dimostrato che nel momento in cui afferro un oggetto per compiere un’azione, come può essere una racchetta o un bastone, l’oggetto viene incorporato nel mio schema motorio, entrando in qualche modo a far parte, per un certo tempo, del mio stesso corpo (Armel, Ramachandran, 2003). La Mutual Incorporation è l’incorporazione reciproca di due schemi corporei. Un atleta interagisce con il compagno di squadra prevedendone i movimenti e percependo attraverso la sua prospettiva la situazione, sulla base di una comprensione immediata e preriflessiva costruitasi nel corso di una storia di precedenti interazioni. In qualche modo ogni atleta è in grado di assumere la posizione di un compagno di squadra “mettendosi nei suoi panni” e prevedendone azioni e reazioni prima che esse si realizzino. Pensiamo ad esempio a due giocatori di tennis che giocano un doppio. Ognuno deve conoscere esattamente la posizione dell’altro, cosa sta facendo, cosa sta percependo dalla sua prospettiva, quali sono le sue possibilità d’azione e cosa prevede farà in quella specifica situazione di gioco nella quale si trovano. Solo così sarà possibile costruire una buona sincronizzazione (Attunement) e spedire la pallina dall’altra parte del campo in modo da mettere in difficoltà gli avversari. Una tale sincronizzazione tra i membri di una squadra è resa possibile dal fatto che ognuno estende il proprio schema corporeo fino a comprendere quello dell’altro. Un tale sistema di schemi corporei interconnessi si definisce Joint Body Schema (Soliman et al., 2015). È attraverso un tale fenomeno e attraverso l’apprendimento di regole condivise per l’interazione, quindi, che i singoli giocatori si uniscono per diventare un’unica squadra. L’individuo viene così a far parte di una totalità più grande, un po’ come accade alle cellule di un organismo. In definitiva possiamo dire che nel caso degli sport di squadra, in particolare in sport come il calcio e la pallavolo per esempio, dall’interazione tra i singoli corpi degli atleti emerge uno schema corporeo complessivo, che compete con quello della squadra avversaria. È a questo livello globale che dovrà lavorare lo psicologo dello sport nel caso delle squadre.

Conclusioni

Proviamo ora a trarre qualche conclusione da questa breve ed incompleta sortita della psicologia fenomenologica nell’ambito dello sport, iniziando dalla pedagogia dello sport. In questo campo sembra giunto il momento di passare da una pedagogia centrata sul corpo-oggetto ad una centrata sul corpo-soggetto. Cosa vuol dire questo? Ad oggi i manuali sui quali gli istruttori e gli allenatori si formano e acquisiscono le proprie conoscenze, sono ancora tutti centrati su una ormai superata ideologia del corpo-macchina di stampo cartesiano. Si studia come è composto il corpo, la sua anatomia e il suo funzionamento, cosa bisogna fare per allenarlo ed ottenere buoni risultati etc. L’integrazione della fenomenologia con le scienze dell’embodiment porta invece con sé molte nuove possibilità pedagogiche (Francesconi, Tarozzi, 2012, 2013). Ma per sfruttare davvero tutte le potenzialità che l’uso del corpo in pedagogia porta con sé, per render utile alla crescita individuale del singolo la pratica sportiva, è ormai chiaro che è necessario introdurre anche l’idea di corpo-soggetto (Agostini, Francesconi, 2021). Piuttosto che prescrivere comportamenti ed allenare muscoli e risposte automatiche, la pedagogia dello sport dovrebbe iniziare ad introdurre con maggiore costanza il lavoro su attenzione e consapevolezza, allo scopo di formare i ragazzi all’esplorazione curiosa e rispettosa delle proprie sensazioni e della vita spontanea del proprio corpo. Bisognerebbe insegnare ai ragazzi come mantenersi in contatto con il proprio corpo, imparando a dialogarci come fosse non soltanto uno strumento attraverso cui raggiungere i propri scopi, ma soprattutto come un interlocutore saggio, pronto a parlare dei propri vissuti e del proprio punto di vista. Imparare a trattare il proprio corpo come un Tu è forse l’insegnamento più grande (insieme a quello ecologico) che la nostra società dovrebbe prendersi nei confronti del proprio stesso futuro. Su questo punto noi occidentali abbiamo sicuramente ancora molto da imparare dai nostri fratelli orientali, che coltivano da secoli pratiche di consapevolezza corporea come lo yoga, la meditazione e le arti marziali. Per far ciò è necessario costruire un linguaggio diverso da quello delle scienze hard, che renda possibile l’accesso al dominio del patico e della sensorialità cui siamo ormai disabituati come società. Questo compito spetta anche agli psicologi e ai filosofi.

Che tipo di conclusioni possiamo trarre invece dal nostro ragionamento per i metodi e le prassi dello psicologo che opera in ambito sportivo? Seguendo la distinzione fatta sopra iniziamo dagli sport individuali. La capacità di mantenere un equilibrio emotivo corporeo può essere migliorata, attraverso l’introduzione nell’allenamento di esercizi dedicati alla autoregolazione consapevole delle emozioni. Un allenamento che comprenda tecniche e un metodo di questo tipo potremmo definirlo Mindful Training. Si tratta di mettere all’opera le conoscenze della psicologia della corporeità per migliorare consapevolezza e controllo dell’atleta. Già da tempo gli psicologi dello sport impiegano tecniche di respirazione e di Motor Imagery (Kim et al., 2017), ma si tratta di portarle dentro un progetto di intervento che tenga conto della soggettività incarnata dell’atleta, del suo contesto e delle situazioni complesse che si trova a fronteggiare nel proprio sport, allenando il corpo a reagire in maniera spontanea, regolata e consapevole.

Infine, nel campo degli sport di squadra, oltre a dedicare un’attenzione specifica alla dimensione relazionale, cosa che ormai si inizia a fare in tutte le squadre di un certo livello, è necessario allenare la capacità di sincronizzazione e risonanza corporea, non soltanto attraverso situazioni di gioco ma anche con esercizi di immedesimazione e dialogo intercorporeo. La Joint body Interaction può essere allenata con esercizi relazionali che non riguardino solo l’ambito dell’interazione corporea, ma una conoscenza reciproca, da persona a persona, in modo da favorire la conoscenza di punti di forza e di debolezza di ognuno, di somiglianze e differenze nel modo di stare in gruppo, in un’ottica di team building. Tutto ciò favorirà l’emergere di uno schema corporeo complessivo di squadra in grado di rispondere in maniera elastica e funzionale alle diverse situazioni di gioco nelle quali si troverà situato. Per perseguire questo scopo è necessario che lo psicologo dello sport sia coinvolto, come per fortuna inizia sempre di più ad accadere, non solo nella programmazione degli allenamenti, ma anche nella costruzione della squadra e nelle scelte strategiche societarie.

In conclusione, tra i tanti ambiti di intervento dello psicologo quello dello sport resta certamente uno dei più difficili e stimolanti, poiché richiede di ripensare la teoria e i metodi cui la clinica ci ha abituati. Quello che abbiamo provare qui a mostrare è che la fenomenologia spinge lo psicologo ad un cambio di prospettiva importante, fruttuoso ed utile nel modificare non solo gli strumenti concettuali con i quali ragiona ma anche le sue prassi, nella direzione di una maggiore attenzione alla corporeità vissuta. Questo tesoro, ricco di intuizioni inesplorate e di nuove possibilità di intervento, aspetta di essere portato alla luce, nascosto ancora tra gli scritti di grandi filosofi e psicopatologi del Novecento. Agli psicologi non resta che appropinquarsi a questo tesoro con curiosità e rispetto, mai dimentichi che l’utilità di un’idea sta nella possibilità di trasformare il mondo.


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Giuseppe Salerno

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