Banalità e poesia. Quale terreno per la psicologia clinica?

di Enrico Raffaelli

Ripercorrendo i passi scanditi da Martin Heidegger in Essere e tempo, banalità e poesia vengono qui presentate come due eminenti modalità d’essere attraverso cui la presenza umana (Esserci) è destinata a muoversi lungo il corso della propria esistenza. Viviamo le nostre vite attraversando l’oscillazione fra un’impersonalità uniformatrice in cui perdere temporaneamente noi stessi, e momenti di riemersione attraverso cui ci pronunciamo, in cui attuiamo quell’uscita fuori di noi propria dell’ec-sistentia cui siamo chiamati. In questa ineludibile alternanza tra la condizione di inautenticità deiettiva e media, quotidiana, propria del mondo del Si, e il suo contraltare costituito da quell’autenticità propria del momento poetico della “decisione”, si gioca anche la partita della psicologia clinica e della sua propria missione: dai suoi fondamenti al suo oggetto di studio, transitando per i rischi di un asservimento acritico alla proposta di un metodo, quello naturalistico, già in sé problematico, e volto a individuare e standardizzare il modo in cui “si” deve fare clinica.

Quale terreno per la psicologia clinica? Forse la fenomenologia costituisce l’unica modalità di sguardo in grado di porsi approfonditamente il problema, e dunque di ripercorrere a ritroso la strada capace di ricondurre dal metodo al senso che lo sottende, seguendo e rispettando la tensione che porta alla realizzazione dell’incontro clinico, il quale è costitutivamente incontro umano e poetico.

 

BANALITÀ E POESIA 

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