«Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare»

«Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare»

Enrico Raffaelli

Muove ora i suoi primi passi quello che tutti auspichiamo possa rivelarsi un capitolo memorabile della fenomenologia italiana, soprattutto per quel che riguarda i rapporti tra essa e la psicologia. Maria Armezzani ha già inaugurato questa sezione dedicata ai contributi, e lo ha fatto alla sua maniera, compiendo il gesto (fenomenologico per definizione) di riconsiderare, in limine, le fondamenta che sottendono l’intento. Così, prima ancora che lo slancio conquistatore proprio di ogni sete di conoscenza, abbiamo potuto ricevere una preliminare riflessione sulle premesse di quello stesso slancio, che ci apprestiamo ora a vivere forti di una riflessione di base che pare in grado di giustificare, quasi “epistemologicamente”, lo speranzoso proposito.

Che “il primo passo verso…” sia stato proprio una premessa sul senso stesso del “verso” è un atto che, credo, potrà rivelarsi fondamentale in futuro, ancora più di quanto non lo sia già ora; ciò in cui adesso, invece, mi piacerebbe potermi avventurare, sono alcune considerazioni circa le potenzialità dischiuse da un simile gesto. Mi vien facile credere che, posto proprio a cominciamento di questa sezione del sito (dedicata agli interventi di chiunque senta di avere qualcosa di inerente da dire), un elogio del “verso” concorra anche a conferire a quest’ultima un’identità e a giustificare la portata del nome affidatole.   

Trovo significativo il fatto che “verso” sia una parola polisemica, come a voler sottolineare l’intrinseca generatività di cui si fa portatrice. Già questo aspetto è in sé sufficiente ad aprire alla dimensione del “senso” (altro) delle cose e delle parole, alla validazione del significato e, più in generale, del solo fatto di poter significare, riconoscere identità. Muovere “il primo passo verso…”, alterare un equilibrio, una stasi, increspare la superficie prima piatta… ma anche scrivere o leggere un “verso”, una porzione di testo che racchiude un intento comunicativo, e da esso pensare di poter cogliere ben di più che le sole parole espressamente riportate, quelle che lo compongono. Si potrebbe quasi pensare che un verso sia una stringa di testo che schiude l’uscio, che, già solo interrompendo la calma di bonaccia, pone la condizione prima per il trasporto “verso” altri lidi.

O, ancora, “verso” come verso dell’animale, richiamo specifico e strettamente identificativo, per noi opportunità di orientamento nel mondo circostante. Ad esempio, sento abbaiare: capisco che da qualche parte, là in fondo alla strada, sulla destra, si trova un cane; ma il solo fatto che, a partire dal verso, io possa risalire al cane, ammette ancora una volta che dire “verso” è significare, e che significare è mettere in movimento (il verso poetico mi “porta” ad un altrove; il verso dell’animale mi “giunge” all’orecchio e, nel rivelarmi la sua posizione di origine, spazializza il mio mondo circostante, mi dice della distanza tra me e questo animale, mi dice del tempo che intercorre tra la mia posizione attuale e la sua, qualora volessi raggiungerlo o, al contrario, non farmi raggiungere da lui).

La polisemia del “verso” è, insomma, uno dei tanti casi in cui una stessa parola si apre a svariati significati, per comprendere i quali è necessario osservarla nel suo contesto, entro la frase di cui partecipa. Allo stesso tempo, appunto, astrarre il vocabolo e considerarlo come fuori dall’ambito in cui viene pronunciato porta alla necessità di considerare tutte le direzioni di senso che esso può assumere e percorrere. Un esercizio, questo, che per quanto semplice richiede di sapersi lasciare trasportare, e che presuppone di dover prima sospendere l’immediato valore inizialmente riconosciuto alla parola, ammettendo come ad esso possano aggiungersene altri prima non contemplati, seppur strettamente appartenenti a quello stesso termine.   

Ma questo atto è dunque già in sé un risignificare, un percorrere scie e tratte “verso” gli altri lidi resi possibili da una stessa parola. Significare è quindi insieme prima un sospendere l’immediato, e poi un mettersi in movimento verso ciò che di altro può venire (o a cui noi possiamo giungere).

In questo senso, pochi, probabilmente, sono stati avventurieri ed esploratori come lo fu Gianni Rodari, che apre la sua straordinaria Grammatica della fantasia (1973) dichiarando «“Tutti gli usi della parola a tutti” mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno più sia schiavo» (Rodari, 1973, 6).

Le parole della fenomenologia sono le parole del mondo-della-vita, della Lebenswelt che Husserl invita a ritrovare nella meticolosa e mai esaustiva indagine fenomenologica. Sono parole non tecniche, che non stanno là per statuto, per pedigree, per appartenenza a un dominio circoscritto di un sapere specialistico, riservato ai soli iniziati che vi si sono addentrati. Fra le parole della fenomenologia non rientrano i tecnicismi e gli “psicologismi”. Eppure, non per questo esse sono parole figlie di uno sguardo superficiale o foriere di considerazioni appartenenti al senso comune: le parole dei grandi Autori della fenomenologia riscoprono l’autorità quasi statuaria di quegli stessi termini che accompagnano, e indicano le essenze irriducibili della nostra esperienza vissuta. Nel loro intento queste parole sono spesso tenute a vestirsi di una solennità quasi ieratica, che pur non frapponendo una distanza strutturale, come di casta, tra loro e chi vi si approcci, non possono che rimarcare inequivocabilmente la durata, la profondità filogenetica del discorso che vanno affrontando.

Non occorre necessariamente essere già iniziati al mondo della fenomenologia e ai suoi termini più frequenti e meno consueti nella vita di tutti i giorni (come possono esserlo, ad esempio, “trascendenza” ed “epochè”) per coglierne, a un livello anche solo meramente intuitivo, la portata antropologica, per riconoscere il gesto del tentativo (delicato, accorato, talvolta affannato) di passaggio di un testimone partito da un orizzonte molto più lontano di quelli che siamo mediamente abituati a considerare, e che pure, proprio per questo, è tanto più intrinsecamente nostro. Queste parole scendono, in chi le voglia ascoltare, come elementi di un alfabeto materno e mai del tutto dimenticabile: esse sono la naturale constatazione della presenza del sasso lungo il sentiero in cui cammino, e la spontaneità dell’atto di raccoglierlo e lanciarlo nello stagno, per osservare in quelle onde il segno momentaneo e familiare del mio passaggio. È il predominio genuino e naturale della sostanza sull’arzigogolo, dell’intuizione sul costrutto, della ricerca incessante e compartecipata sulla cristallizzazione artificiosa. Rodari, che ha letto Freud e molto ne attinge, si esprime così:

Non diversamente una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio […] La parola, intanto, precipita in altre direzioni, affonda nel mondo passato, fa tornare a galla presenze sommerse. (Rodari, 1973, 7-8)

Tralasciando la complicata analisi di formulazioni quali “mente” e “inconscio” (soprattutto nei loro rapporti con la fenomenologia), la quale richiederebbe ben altra sede ed esula dall’intento che muove queste poche righe, trovo che questo breve brano dell’autore sia già in grado di comunicare tutta la potenza generativa intrinseca anche solo a un singolo termine (che “termine”, per l’appunto, in realtà mai non è). Di nuovo: leggo “verso”, leggo che Minkowski lo definisce un “magnifico vocabolo di cinque lettere”, leggo Maria Armezzani, il modo in cui ne sottolinea la portata poietica e l’inno al movimento che ne scaturisce, e allo stesso tempo ritorno con il pensiero (compio un movimento a ritroso) a una considerazione di passaggio e di poco conto, e che però ora può assumere tutto un nuovo significato.

Leggiamo che Minkowski definisce “verso” un vocabolo di cinque lettere, come effettivamente esso ne ha nella lingua italiana; ma Minkowski, originariamente, scrive in francese. Nulla di strano, fin qui, se non fosse che a una tale constatazione consegue quella che lui, inizialmente, si riferisca non al “verso”, ma al vers, un magnifico vocabolo di quattro lettere.

Sono considerazioni quasi oziose e così, almeno inizialmente, le bollo. Eppure, se mi ci soffermo un solo istante in più del necessario, mi accorgo che in questo semplice fatto è, forse, racchiusa l’essenza stessa dell’identità. Infatti io, nel mio essere italiano, ricevo un testo francese tradotto nella mia lingua madre: Minkowski scrive “quattro”, io leggo “cinque”. Stando alla lingua francese, Minkowski può sì pensare vers anche come “verso poetico”, ma ciò che non può fare è vederlo come “verso di animale”, che in francese è cri. Ciò comporta che io, dal mio ineliminabile punto di osservazione, veda come cinque ciò che, per chi inizialmente mi si rivolge, è quattro.

Questo (che, volendo accennare una battuta neanche troppo azzardata, dice anche della trascurabilità del numero in fatto di esperienza) attesta che quel mio cinque e quel suo quattro si aprono entrambi a risignificazioni condivisibili ma mai del tutto sovrapponibili, a testimoniare ancora una volta l’impossibilità (ma soprattutto, allo stesso tempo, la non necessità) di obiettivare una realtà in una forma univoca: nonostante questo sfuggirci a vicenda, siamo infatti entrambi in grado di cogliere l’essenza condivisa, perché quella realtà generativa e intrinsecamente cinetica appartiene tanto a “verso” quanto a vers.

Di qui, insomma, è il sasso nello stagno: il moto innescato va in tutte le direzioni, a partire dal punto in cui quel sasso/pensiero è precipitato, ma ora sta a me decidere, per l’appunto, quale verso percorrere per primo, quale seguire fin dove ne sarò capace o intenzionato, e quale lasciare andare ad arenarsi sulla riva.

In questo modo, entriamo di diritto nell’ambito che più ci interessa, e non in quanto psicologi o professionisti psy, ma in quanto esseri umani, perché ciò che immediatamente (in maniera, appunto, non mediata da alcunché d’altro) ci si dischiude innanzi non è che la stessa dimensione del senso.

Ed ecco così, nemmeno a farlo apposta, un altro, gigantesco caso di polisemia, un altro crocevia di direzioni. “Senso” in termini di sensazione ridestata, attualizzazione del mondo vissuto; o ancora come “senso di marcia”, direzione da intraprendere (avendo appunto un certo grado di contezza del luogo di partenza, ma senza con ciò poter conoscere quello di approdo); ma soprattutto, credo, “senso” come significato, come imprescindibile e mai del tutto eliminabile atto del nostro stesso transitare, ciò che il Fabrizio De André di Khorakhané racchiude, con la consueta nitidezza e la sottile efficacia dei suoi testi (a loro volta così intrinsecamente fenomenologici), dicendo «per la stessa ragione del viaggio, viaggiare».

Mi unisco alle fila, numerose, di chi ritiene sia tutt’altro che profano riconoscere aspetti degni del nome di una fenomenologia purissima anche in personalità che, forse, di fenomenologia potrebbero pure non aver mai sentito parlare. Dire fenomenologia non è, infatti, nominare un sapere specialistico a cui abbarbicarsi dopo avere faticosamente sudato le pagine di autori su autori (a cominciare da Husserl, per poi proseguire con larghe schiere di eminenti filosofi, scienziati, psicopatologi…): fenomenologia è, in primo luogo ed essenzialmente, un modo di guardare al mondo, un sapere esperienziale così immediato e intrinseco che forse, prima ancora che insegnato, andrebbe ricordato.

A tal proposito, e anche in merito alla difficoltà che la proposta fenomenologica si trova a vivere nella sua diffusione presso gli psicologi (difficoltà in gran parte riconducibile proprio alla lunghezza del cammino che il suo radicale e approfondito studio richiederebbe), Lorenzo Calvi dichiara:

[L’esercizio della fenomenologia] non richiede necessariamente di possederne tutto l’impianto filosofico, perché si può essere fenomenologi anche seguendo strade diverse e più brevi. La prima strada è quella di valorizzare l’incontro diretto e di aver fiducia nell’intuito in quanto strumento della visione (“occhio clinico”). La seconda è quella di confrontare l’intuito con l’esperienza dell’uomo della strada ed ascoltare, valorizzare, decifrare quel che egli esprime in termini di senso comune, avendolo acquistato con la “seconda vista”. Chi percorre la prima o la seconda strada è quasi sempre fenomenologo senza saperlo. (Calvi, 1993, 99, op. cit. in Armezzani, 1998, 228)

L’invito a ricordare e quello a risalire a ritroso fino al senso delle cose sono, nella Crisi di Husserl (1959), praticamente la stessa cosa. Ripercorrendo la nascita della geometria come scienza delle forme pure, astratte, ideali, egli ricostruisce come questa origini dall’agrimensura, dunque dal bisogno (concreto, un bisogno propriamente “della terra”) di misurare, delimitare e ripartire i campi e le porzioni di terreno dedicate alla coltivazione. Ciò che in seguito ne è scaturito è storia della misura, della matematica, del numero, ma il tutto comincia da là, da una necessità concreta, tangibile, corporea. Il fatto che oggi disponiamo di un vastissimo corpus di saperi oltremodo complessi implica che, per proseguire nella nostra incessante ricerca, non siamo più tenuti a risalire al movente originario, o a sapere nel dettaglio in che modo siamo giunti fino al punto dal quale prendiamo le mosse, e questo Husserl lo riconosce con impareggiabile lucidità.

La psicologia, che storicamente è voluta sorgere e attestarsi sul modello delle scienze naturali, è tutt’altro che esente da questo rischio, quello della perdita di aderenza con le esigenze e le evidenze originarie, della perdita di contatto con il mondo-della-vita. Per questi motivi, personalmente, una delle parole con cui meglio identifico l’approccio fenomenologico è “emergenza”. Ciò, sì, dal momento in cui, fra le tante cose, fenomenologia è essenzialmente la capacità di gettare uno sguardo sul fenomeno per come esso, emergendo, si dà, riconoscendolo nel suo implicito e ineliminabile statuto, nella necessità indiscriminabile della sua presenza (è, ad esempio, una forzatura ai limiti della violenza quella di non voler primariamente soffermarsi sullo scorgere e sul riconoscere, nella melanconia e in tutte le forme depressive che hanno storicamente avuto conio, l’intrinseco vissuto della tristezza e le sue articolazioni esistenziali, prima ancora che i criteri diagnostici convenzionalmente impiegati per identificarla e classificarla). Ma, non di meno, quella fenomenologica è un’emergenza anche e soprattutto professionale, una necessità ormai inderogabile di ripercorrere a ritroso tratti ormai anche molto vasti della costituzione della psicologia come scienza, alla volta di un rientro tra i confini del senso e del significato esperienziali, nell’immediatezza del vissuto umano e della Lebenswelt. Quello di Husserl non può che essere, per noi che nasciamo già così intrisi, nel vantaggio del progresso ma anche nel rischio della sua azione obnubilante, delle conquiste (innegabili, si intende) delle scienze occidentali, un riferimento imprescindibile nella via per (“metodo”) un vedere e un fare fenomenologici, nella via “verso” il mondo-della-vita.

Se è vero, per citare un altro grandissimo fenomenologo non “ufficiale” come Antoine de Saint-Exupéry, che «l’essenziale è invisibile agli occhi», notiamo come quello della fenomenologia si attesti già in partenza come un compito tra i più ardui, come la sua ricerca verta su quanto di più inafferrabile sia mai stato costituito a oggetto di indagine. È il dominio della dissolvenza e, in certa misura, quello dell’ineffabilità; ma resta, inesorabilmente, tutto ciò da cui partiamo, da cui possiamo pensare di muovere quel famoso primo passo.

Rieccomi, dunque, a quell’originario promotore di questa breve e inconcludente riflessione (e non per retorica, ma sempre, necessariamente e propriamente, inconcludente), al “verso” di quel primo passo, e all’imprescindibile considerazione circa i presupposti che le hanno consentito di prendere corpo. Fra tutti, spicca qui quell’esistenziale dell’Esserci (Dasein) che, in Essere e tempo (1927), Heidegger individua nel con-essere (Mitsein), ossia nel riconoscimento incontrovertibile che il rapporto con gli altri ci è originariamente costitutivo. Ciò che questo rapporto originario ci disvela è nientemeno che l’Altro nel suo essere irriducibile alla “cosalità” degli oggetti e delle cose che andiamo incontrando nel mondo. L’Altro è immancabile aspetto del nostro transitare, sia esso un procedere o piuttosto un vagare; è il nostro con-Esserci, il nostro Mitdasein, che vede il gioco e rilancia, che getta nello stagno una parola e non aspetta altro che noi la raccogliamo, o che lasciamo che si converta in onde sulla superficie, da seguire, proseguire, deviare ecc. come a noi suggerirà di fare la nostra maniera di stare al mondo, lo stesso di cui anch’egli è parte, sempre condiviso ma mai identico se non a se stesso.

Questa rivista, credo, nasce appunto così, da sassi e parole gettati immemorabilmente addietro dall’Altro già soltanto per la sua presenza, per il suo con-Esserci, e assumendo in sé, in “Mitdasein”, il nome che le spetta.

Prima di ogni filosofia, prima di ogni cumulo di sapere, svettano questo eterno ripetersi e rinnovarsi dell’incontro, e la gioia, la trepidazione, i timori e le speranze dei primi passi, tutti gli orizzonti schiusi e preclusi da uno stesso “verso”. Senza con questo affatto volere, irragionevolmente, scimmiottare la religione cristiana, e anzi concedendo e riconoscendo, agli innumerevoli usi della parola già decantati da Rodari, anche lo sfizio così umano del calembour, potremmo quasi assumere che, per una cosmogonia del viaggiare, “in principio era il Verso”.

Nel suo proporsi come una modalità di sguardo sul mondo dichiaratamente non volta ad individuare un’ipotetica obiettività naturalistica della realtà, la fenomenologia non si costituisce come un nuovo sapere teoretico o una nuova dottrina; allo stesso tempo, non è possibile liquidarla sbrigativamente con l’ormai desueta contrapposizione di un soggettivismo a un oggettivismo. Il non poter prescindere dalla soggettività, dalla situazione dello sguardo che estendiamo sul mondo, non è che la necessaria premessa alla regola aurea del difficilissimo esercizio dell’epochè fenomenologica.

Non si tratta di contrapporre un dominio del soggettivo, del relativo, a un dominio dell’oggettivo e dell’univocamente determinabile: si tratta, piuttosto, di risalire sì alla soggettività della coscienza, ma con l’obiettivo di addentrarsi radicalmente, con il metodo poggiante sull’epochè, nell’indagine delle forme dell’esperienza, riconoscendone alla base la strutturale ineliminabilità. «Questo ricorso a un soggettivismo trascendentale radicale susciterà naturalmente obiezioni e scetticismo. Nulla mi è più gradito, purché questa scepsi non stia a indicare una volontà di rifiuto bensì una libera astensione da qualsiasi giudizio» (Husserl, 1936, 124).   

Come in ogni viaggiare, il rischio (qui, in pratica, vestito di certezza) di non pervenire a niente di fisso, a nessuna meta definitiva, per  quanto sognata o agognata, è più che mai presente. È il rischio della nullificazione, con cui abbiamo capito di dover convivere già dalla notte dei tempi. E quindi sì: potrebbe, in fin dei conti, anche non essere nulla. Eppure, proprio per le fondamenta gettate, anche un nulla siffatto resterebbe già sempre, mi pare, fenomenologia.

 

RIFERIMENTI

Calvi, L. (1993), Prospettive antropofenomenologiche. In AA.VV. Trattato italiano di psichiatria, Masson, Milano. Op. cit. in Armezzani, M. (1998), L’enigma dell’ovvio. La fenomenologia di Husserl come fondamento di un’altra psicologia, Unipress, Padova

Heidegger, M. (1927), Sein und Zeit, trad. it. Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005

Husserl, E. (1936), Die Krisis der europäischen Wissenschaften un die transzendentale Phänomenologie, tr. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 2015

Rodari, G. (1973), Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino  

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