La scelta dell’ignoto: riflessione a partire dai contributi inaugurali di Armezzani e Di Petta
Carmelo Pacino
Scrivere qualcosa a partire dalle profondissime riflessioni di due giganti della fenomenologia non è semplice, ma, sulla scia di quanto detto dalla prof.ssa Armezzani, seguo lo slancio che sento nascere in me, che spero possa prendere degli utili risvolti.
Per questa mia brevissima riflessione vorrei partire da alcuni punti che il prof. Di Petta e la prof.ssa Armezzani hanno messo in evidenza nei loro contributi per l’inaugurazione della rivista Mitdasein.
“Il primo passo verso…” contiene già in sé una direzione. La direzione è già nel primo passo. Ma è una direzione che non si definisce a partire da un punto d’arrivo posto di fronte o a distanza da noi; non è segnata da un obiettivo da raggiungere, da uno scopo prefissato, da un’anticipazione di utilità. Ciò che è puramente lineare le resta estraneo.
La direzione impressa dal primo passo è aperta e indeterminata, avvia un movimento che mette fine alla stasi, la rinnega e la cancella. L’essenza del primo passo è tutta lì, nello slancio da cui origina il movimento (Maria Armezzani)
Forse aprirvi all’impotenza di fronte all’enigma dell’incontro è il lavoro migliore che potete fare (…)
Ci vuole coraggio, un certo grado di amore per la vita e per l’avventura, per il rischio, ed una disposizione al naufragio. Perché è un ambito, quello della clinica, in questa prospettiva fenomenopatica, dove i conti non tornano mai. Ma è un ambito, quello di questa clinica, dove le possibilità di incontrare nel suo spettro di esperienze questa unicità del cosmo che è l’uomo, anche sub specie psicopatologica, sono veramente infinite. (Gilberto Di Petta)
Sono parole forti, che esulano dal mainstrem cui siamo abituati non solo nel mondo professionale, ma anche nella vita di tutti i giorni, una vita scandita dall’efficienza, dal quanto riesci a produrre e consumare. E – mi permetto – sono parole che il mainstream stesso mette in esilio, bandisce, perché non trovano un senso in questo nostro mondo governato dalla necessità di obiettivi ben definiti da raggiungere nel minor tempo possibile, dove non c’è spazio per il vissuto, per il mondo-della-vita: ma è davvero possibile oscurare la Lebenswelt? Eppure persino la morte, che nel senso comune, spesso, intendiamo come totale annientamento, fa parte della vita, anzi, paradossalmente, l’orizzonte della morte è prerogativa, è connaturale a qualsiasi riflessione che del mondo-della-vita si voglia fare.
Ma non è questo ciò su cui voglio riflettere, ma quanto le parole della prof.ssa Armezzani e del prof. Di Petta risuonino nella mia esperienza di scelta della clinica.
Molto spesso ci viene chiesto “perché hai scelto questa strada?” e di fronte a tale domanda io non ho una risposta. Solitamente si risponde con “desiderio di aiutare gli altri”, ma se si scende negli abissi di questa frase si capisce come sia più complesso di così. Cosa significa voler aiutare gli altri? Cosa significa esserci e lasciarsi attraversare dall’altro? Può riferirsi, come nell’ambito medico, a un esperto che ascolta il problema, rintraccia la causa e trova la soluzione, possibilmente anche con un atteggiamento superiore, di potere? Eppure tutto questo non rispecchia a pieno l’esperienza che si fa dell’altro nell’incontro clinico: è un impoverimento, un derubare l’esperienza della portata trasformativa che ha in sé. Ciononostante, il mainstream egemone di oggi, l’idea quantitativa, oggettiva e verificazionista che ci propongono oggi in diversi contesti formativi e professionali è proprio questa. L’esperienza dell’incontro clinico è davvero così asettica e meccanica? Se così fosse, mi sa che ho sbagliato mestiere.
Lo slancio, il primo passo di cui ci parla Maria Armezzani è un movimento che non conosce logiche lineari, non ha scopi prefissati, ma l’essenza del primo passo è nello slancio che determina il movimento. Ecco, se dovessi parlare della mia esperienza e di ciò che mi ha spinto a scegliere la clinica, partirei da qui. Da questa spinta indeterminata, non chiara, ma che ha determinato questo movimento verso…
…verso cosa? O verso chi?
Abbiamo detto che la spinta non ha un obiettivo prefissato, eppure è chiaro, assolutamente evidente come la spinta sia rivolta verso l’Altro. Quindi siamo di fronte ad una contraddizione? No, e qui ci vengono incontro le parole di Gilberto di Petta. Nella sua riflessione sul baratro, sull’ “abisso”, come lui stesso lo definisce, tra piano teorico e piano pratico, ci consegna un’immagine. Sì, è un’immagine che difficilmente riesce a trovare una sua esplicitazione nel linguaggio. Si tratta dello spazio dell’incontro, di quello spazio interstiziale tra due mondi che si incontrano. E quando queste due spazio-temporalità si incontrano si genera qualcosa di assolutamente nuovo, che le teorie e i modelli possono solo abbozzare, immaginare, provare a prevedere ma mai riproporre nella sua portata patica. In cento anni di psicopatologia fenomenologica, grandi autori e maestri hanno dato il proprio contributo non solo partendo dalla vastissima e – oserei dire – mastodontica formazione (pensiamo, ad esempio, a Bruno Callieri che ha fatto dell’incontro il Leitmotiv di tutta la sua vita) ma, soprattutto, dal loro esserci in questo incontro, che è sempre nuovo, dove, sì, è possibile trovare di volta in volta come delle “invarianti”, ma è qualcosa che non può essere de-finito una volta per tutte. Questo incontro si colloca in una dimensione temporale del tutto particolare che è quella kairotica, ovvero quella del momento propizio[1]. Il kairós è diverso dal tempo della relazione, ovvero il chronos, in quanto non è databile o empirico, ma è il tempo della novità. Affinché, però, l’incontro possa dischiudersi in questa sua novità, di cui è sempre portatore, nel “tra” di due spazio-temporalità che si avvicinano, è necessario che vi sia un atto di riconoscimento della dissimmetria dell’Altro, del suo essere simile e, allo stesso tempo, diverso[2]. Quindi, l’incontro ha sempre a che fare con l’ignoto, che è cifra dell’essere umano.
E che posto c’è per l’ignoto nella nostra formazione? Quale posto trova tutto questo e altro in tecniche che pretendono di esaurire l’imprescindibile alterità dell’Altro? Non viene forse a nascere una relazione Io-Esso, invece che Io-Tu, di buberiana memoria[3]? Che posto trova la necessità di “arrendersi”, di non sapere e di non poter controllare tutto (sebbene, come dice Di Petta, sia necessaria una solida formazione)?
Allora, per non dilungarmi troppo, non è una contraddizione dire che lo slancio non ha una meta prefissata e, contemporaneamente, dire che andiamo verso l’Altro, proprio perché l’incontro porta con sé l’ignoto, è sempre novità, è qualcosa che trascende le persone in gioco e si snoda in quella “traità” (lo Aidà in giapponese), per citare lo psichiatra fenomenologico Bin Kimura, che è l’inevitabile dimensione relazionale dell’essere umano[4].
Spero che da questa brevissima riflessione si capisca come la scelta della clinica non sia sempre qualcosa che riguardi un pensiero calcolante, logico-lineare, ma affonda le sue radici in uno slancio verso l’ignoto della relazione, anche senza esplicitare le motivazioni che a primo colpo si possono addurre. Questa scelta ci mette in cammino, ci fa salire su una nave e tutti i marinai sanno che, indipendentemente dalla loro esperienza e dalla loro formazione, ci sono degli aspetti che non si possono controllare, ma bisogna imparare a convivere coi flutti del mare, con le tempeste, con i giorni di calma piatta, con i momenti di sconforto perché non si vede un porto sicuro a cui approdare, di gioia per essere arrivati, ma anche con l’entusiasmo e la paura di salpare nuovamente.
[1] – Gaston, A., & Gaston, C.M., (1998). Il tempo dell’incontro. In Callieri, B., & Maldonato, M. (Eds.). (1998). Ciò che non so dire a parole: fenomenologia dell’incontro (pp. 121-133). Guida.
– Masullo, A. (2013). I paradossi dell’incontro e l’esercizio psicopatologico di Bruno Callieri, Comprendre, 23(I), 169-177.
[2] Stanghellini, G. (2017). Noi siamo un dialogo. Antropologia, psicopatologia, cura. Raffaello Cortina.
[3] Buber, M. (2019). Il problema dell’uomo (I. Kajon, Trans.). Marietti. (Original work published 1947).
[4] Kimura, B. (2013). Tra. Per una fenomenologia dell’incontro (L. Capponcelli, Trans.). Il Pozzo di Giacobbe. (Original work published 1988).