Caro professore

Caro professore

Risposta alla lettera di Gilberto Di Petta

Micaela Abbonizio

 

 

Caro professore,

con la gratitudine di sempre, per la sua capacità di fra risuonare in me emozioni e sensazioni potenti, ricordi che tornano vividi e pulsanti, idee che sembrano prendere forma, come se godessero pian piano di una nuova luce, mi accingo ad abbozzare qualcosa che somigli ad una risposta alla sua lettera; anche se un po’ fuori tempo.

Leggerla mi ha fatto tornare in mente la prima paziente che ho incontrato per una “psicoterapia”. Ricordo quanto mi pareva assurdo che io fossi la protagonista al di qua della scrivania di quell’incontro, come una bambina che riceve un dono troppo grande e rimane incredula, fatica a capacitarsene.

Ero, eravamo, in uno studio del Csm, sole io e lei, senza tutor, maestri, colleghi.

Una giornata autunnale molto soleggiata, ricordo perfino che abiti indossavo, perchè li avevo scelti con cura, sapevo che la ragazza era molto giovane (ed anche io lo ero) volevo trasmetterle una giusta dose di vicinanza e sicurezza, non sembrare troppo austera, ma neanche una teenager. Mi sentivo piccola, assolutamente impreparata ad una cosa così importante, incontrare a tu per tu una persona che sta attraversando un momento di sofferenza.

Ricordo il sole forte che ci scaldava, ricordo il viso di Lisa, la sua pelle diafana, i capelli rossi, gli occhi abilmente truccati, e un sorriso  che espandendosi creava due simpatiche fossette sulle sue guance e la sua stretta di mano, una manina piccola e umidiccia, completamente molle, da sembrare di gelatina (allora avevamo l’onore di vedere i sorrisi delle persone, cogliere le espressioni disegnate dalle rughe del viso e di stringere le mani, annotavo sempre, al primo incontro, come stringevano le mani le persone).

Ricordo quanto calore generava il mio corpo, le mani tremavano, ero spaventata. Nell’illusione di far fronte a questa paura nei giorni precedenti mi ero prodigata nel rileggere alcuni libri, e nell’ immaginare come avrei dovuto “condurre” il colloquio, cercando di stilare una sorta di canovaccio mentale, che potesse farmi da guida in quella che mi sembrava un’avventura molto rischiosa. In particolar modo, però, ricordo di essermi seduta davanti a lei e di aver contratto ogni muscolo, cercavo di non muovermi, temevo di inquinare, con i miei movimenti, con qualcosa di mio, lo spazio di quell’incontro. Ricordo la tensione, l’impegno profuso per cercare di immagazzinare ogni frase, ogni espressione di Lisa, volevo che nulla sfuggisse, volevo prendere tutto, speravo di riuscire a capire, di “afferrare” e “controllare” il più possibile ciò che stava avvenendo.

Erano i primi mesi della scuola di specializzazione, mesi in cui mi sentivo come un’escursionista che sa che la fatica sarà tanta, ma che il panorama sarà commisurato al sudore profuso, mai avrei pensato di uscire da quei quattro anni come sono uscita. Vedevo colleghi (li vedo ancora ma non ne sono più invidiosa) muoversi con disinvoltura, sicurezza e fierezza, persone che dopo un paio di colloqui comprendevano tutto, elargivano indicazioni terapeutiche e sembravano aver in mano tutto, risolvere tutto e mi dicevo “vedrai alla fine della scuola sarai così anche tu, abbi pazienza”.

Studiavo e mi appassionavo sempre di più ai mondi della vita, quando leggevo, quando ascoltavo le vostre lezioni sentivo una fame insaziabile di sapere, prendevo appunti incessantemente, sentivo che volevo assorbire tutto, ero infuocata, non vedevo l’ora di incontrare proprio quel mondo della vita, per fare esperienza in prima persona di ciò che avevo ascoltato: “prima devi studiare questo e quest’altro libro e poi vedrai come ti sentirai padrona della situazione, capace di stare in quell’incontro, capire tutto ciò che la persona porta” mi dicevo.

Ricordo bene le mie prime supervisioni, emergeva chiaramente il mio desiderio di fare qualcosa per l’altro davanti a me, risolvere i suoi problemi, alleggerire la sua esistenza, soprattutto si manifestava la mia difficoltà di stare, sostare, guardare l’abisso che l’incontro con ogni essere umano è capace di disvelare dentro  me, dentro noi,  lasciandoci privi di quel velo protettivo che ci mantiene al sicuro. Penso a Levinas quando scrive che “l’essere che si esprime si impone, facendo appello a me con la sua miseria e la sua nudità – con la sua fame – senza che io possa restare sordo al suo appello” (Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito)[1].

Giorno dopo giorno, incontro dopo incontro, mi sono schiantata, (perdonate l’espressione un po’ forte, ma si è trattato davvero di uno schianto), con il fatto che nessun paziente era esattamente come l’avevo studiato, come l’avevo sentito a lezione, che ogni mondo della vita che mi si apriva dinanzi era sempre più immensamente confuso e poco definito, che le bellissime cose di cui parlavate non calzavano mai a pennello con i pazienti che incontravo. Ricordo bene questa fase, ricordo lo sconforto, la paura, lo smarrimento, ricordo quante volte sono uscita da un colloquio pensando “forse è meglio che cambi lavoro cara mia tutto questo non fa per te” ricordo le lacrime, il senso di impotenza e la frustrazione che tuttavia si accompagnavano sempre alla passione che mi impediva di mollare. In alcuni momenti ho sentito esattamente questo, qualcosa che mi spingeva a lasciare e cercare di fare altro nella vita, e una forza contraria che non me lo permetteva.

Se oggi dovessi dire qual è la cosa più importante che ho appreso dalla mia formazione, direi  proprio la possibilità di sostare con un altro essere umano nel dolore, nell’inquietudine, nel timore, senza il bisogno di fare necessariamente qualcosa.  La pazienza di tollerare di non capire, il coraggio di attraversare mari burrascosi insieme all’Altro senza terrore, nella fiduciosa attesa che si possa generare qualcosa di buono dal  nostro viaggiare insieme.

Se l’attesa è, “investimento sul divenire”, e nel suo essere “insatura apertura all’Altro, comunque esso sia, si alimenta di distanza e alterità” (Giovanni Stanghellini, Noi siamo un dialogo)[2], è questa la disposizione d’animo a cui sento che in qualche modo le persone che incontro fanno appello. Disposizione che credo profondamente preziosa nell’incontro con qualsiasi forma di Alterità, sia essa la Nostra o quella dell’Altro.

Prendo di nuovo a prestito le parole di Lévinas quando dice che con l’apparizione dell’altro ognuno di noi è “sbalzato di sella“, sento l’altro, sento la sua estraneità, che risuona con la mia, con l’alterità che mi abita, che abita ognuno di noi, che ci fa tremare, ci inquieta e spesso genera il bisogno di definizione, di possesso, di controllo, che talvolta possiamo agire facendo questo lavoro.

Perché lasciare l’altro libero di essere altro, ci impone di rispettarne la sua inafferrabilità, che credo sia quanto di più complesso e articolato io abbia mai provato a fare.

Sto cercando di imparare ad accogliere e rispettare l’altro come presenza viva, che in quanto tale mette in crisi le forme con cui tentiamo di ricondurlo a ciò che è già noto, per lenire la nostra inquietudine.  Ma questo è tutt’altro che semplice e poetico, è difficile e faticoso e talvolta doloroso.

Mi sforzo incessantemente di assumere l’Alterità come criterio fondamentale, colonna portante del mio essere psicoterapeuta, il fondamento etico del mio agire professionale, perché la centralità dell’altro mi impone una relazione di responsabilità, che nell’incontro si prefigge di lasciare intatta la sua diversità e rispettare la sua alterità, rinunciando a qualsiasi tentativo di afferrarlo, nella dolorosa consapevolezza che l’altro è solo approssimabile (ho preso nuovamente in prestito ciò che scrive Lévinas che mi sembra particolarmente potente nell’illuminare questa questione).

Ho capito, ed è stato inquietante, che preparare un incontro è quanto di più fuorviante si possa fare, che ciò che sarebbe importante è riuscire a predisposi nella condizione di essere capaci di un’apertura verso l’altro, di fare spazio, uno spazio che permetta all’altro si manifestarsi, e permetta a noi di lasciarci guidare dalle sue parole, dai suoi silenzi, dalle sue lacrime e dai suoi sorrisi; sentire il suo respiro, l’atmosfera che si genera dal nostro essere insieme, dal suo e dal mio essere lì, proprio in quel momento. Questo ci chiama ad abbandonare la pretesa di applicare un sapere pre-costituito, disponibili a rischiare di uscire un po’ da noi stessi per fare spazio, rinunciando a qualche certezza, non per perderci, ma per aprirci a possibilità sconosciute, non prevedibili.

Credo che qualcosa di simile sia accaduto, quasi parallelamente, nella mia vita personale, con la mia inquietudine, con il mio sentire sempre piuttosto tumultuoso. Ho cercato lungamente e in vari “luoghi” un che si rassicurante, qualcosa che placasse quel subbuglio, ma mi sono accorta che più cercavo, senza trovarne, rassicurazioni, spiegazioni, ordine, più la mia inquietudine aumentava. Ad un certo punto, non ho ancora ben chiaro come, ma ho capito che si tratta di qualcosa che fa parte di me e che probabilmente più che addomesticarla devo imparare ad accoglierla, ascoltarla e sostare in essa quando ha bisogno di farsi sentire più forte, e così qualcosa in qualche modo si è pacificato.

Ultimamente prima di incontrare un paziente cerco di dedicare qualche minuto ad una poesia, una a caso, come volessi provare ad entrare in una disposizione d’animo che mi permetta di avvicinarmi ad un incontro autentico, e cercare di fare quello che fanno i poeti, “estrarre nuovi possibili significati dai puri dati sensoriali” (Antonello Correale, La potenza delle immagini. L’eccesso di sensorialità nella psicosi, nel trauma e nel borderline)[3].

Mi viene in mente una frase che ho letto qualche giorno fa in un’intervista ad una poetessa che amo molto che dice “la poesia insegna a ricevere le parole, a farsi dire dalle parole, è una faccenda di umiltà, di attesa, di spiazzarsi” e ancora “mi sembra che l’esistenza stessa della poesia dica che il male è attraversabile e trasformabile, che la fuga non è l’unica soluzione, che di ogni cosa si può fare una mappa vivendola, una mappa che si forma camminando passo passo,  e passo passo si disfa e se c’è una via d’entrata, ce n’è anche una d’uscita… insegna a sostare e a perdere l’illusione del controllo. Ogni vita ha la sua dignità e ogni millimetro di caduta anche.” (Chandra Livia Candiani, La poesia insegna a farsi dire dalle parole. Intervista)[4]. Mi chiedo se non sia  esattamente ciò che dovremmo riuscire a fare con i nostri pazienti…

Ci tengo a sottolineare che nessun rigo di quanto ho scritto ha l’intento di sminuire l’importanza di uno studio assiduo e profondo della psicopatologia, della psicoanalisi, della filosofia , dell’antropologia, della letteratura, tutto assolutamente fondamentale per fare questo strano lavoro, perché è solo se possediamo questo bagaglio (sempre mezzo vuoto) che possiamo farne epochè, perché solo un marinaio che conosce bene il mare,  può permettersi di uscire in barca anche se c’è una burrasca e il mare che navighiamo quando incontriamo un Altro essere umano in terapia, è spesso tremendamente e meravigliosamente  burrascoso.

Grazie professore, perché quello che ha scritto mi ha fatto pensare, mi ha fatto emozionare e mi ha fatto ri-sentire qualcosa di simile a ciò che mi attraversava quando ci incontravamo dal vivo, quando seduti in cerchio lei riusciva a far vibrare gli animi di quindici persone spaventate ed eccitate, deluse ed entusiaste generando melodie intensissime, a volte belle ed armoniose, altre violente e stonate. *

 

Micaela Abbonizio

 

(*Mi riferisco ai gruppi che il professore svolge presso la scuola di psicoterapia fenomenologico-dinamica di Firenze di cui sono stata allieva)

[1] Lévinas E., (1961), Totalità e infinito: saggio sull’esteriorità. Jaca Book, Milano

[2] Stanghellini G., (2017), Noi siamo un dialogo Antropologia, Psicopatologia, Cura. Raffaello Cortina, Milano

[3] Correale A., (2021), La potenza delle immagini. L’eccesso di sensorialità nella psicosi, nel trauma e nel borderline. Mimesis Ed., Milano

[4] Chandra Livia Candiani,(2017) La poesia insegna a farsi dire dalle parole. https://www.lestroverso.it/chandra-livia-candiani-la-poesia-insegna-farsi-dire-dalle-parole

 

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